giovedì 21 dicembre 2017

#SENZA_TAGLI / Tra umano e disumano (Marco Revelli)

[D: Perché la scorsa estate le Organizzazioni non governative sono state denigrate al punto di essere accusate di "crimini umanitari"?]
La scorsa estate è stato superato un limite, estremo, direi. E' stata infranta una soglia "di sicurezza". E una linea di confine non tracciata né formalizzata, ma ben percepibile moralmente da ognuno - quella che separa la sfera dell'"umano" da quella del "disumano" - è stata bruscamente spostata verso la disumanizzazione. Abbiamo assistito a qualcosa che non ha precedenti nel nostro Paese (e potremmo dire nell'intero Occidente) quantomeno dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi: alla stigmatizzazione pubblica di chi opera con lo scopo esclusivo e dichiarato di salvare vite umane. Alla messa al bando "ufficiale" dell'altruismo e della solidarietà in quanto atti sanzionabili penalmente e deprecabili eticamente, o comunque comportamenti "sospetti", "illegali" o "illegittimi", sicuramente pericolosi e meritevoli di esser posti sotto controllo e tutela degli apparati repressivi dello Stato. Si è arrivati addirittura a coniare l'espressione "crimini umanitari", che non sono - come si potrebbe credere - quelli commessi "contro l'umanità" ma al contrario quelli commessi per "eccesso di umanità": per quello che è stato definito "estremismo umanitario" (sic!). Questo è stato l'effetto del cosiddetto "codice Minniti" imposto alle Ong, delle ipotesi di reato e delle inchieste aperte da alcune procure meridionali e delle campagne-stampa condotte da gran parte della stampa nazionale.

[D: Questa situazione è il frutto di un'inversione morale?]
L'espressione rende bene il concetto: il rovesciamento, appunto, di tutti i valori. Con il bene ricodificato in male: l'opera di chi agisce per la salvezza della vita altrui sospettata di illegalità, guardata con sospetto, perseguita come reato. E il male riconfigurato come normalità: l'atto di chi volta la faccia di fronte alla morte altrui nobilitato come conforme alla norma. Come agire non solo legittimo ma per molti versi doveroso. Chi salva è potenzialmente un reo, chi ignora gode della tutela della legge. Lo ripeto, a un abisso di tal genere non si era ancora arrivati. Il disprezzo della vita altrui esisteva, certo, ma nel senso comune e nell'immagine pubblica restava qualcosa di cui vergognarsi. Ora al contrario è l'agire di chi salva a doversi giustificare e celare, quasi per un gesto inconfessabile. E il "buon samaritano" a doversi guardare dalla sanzione dello Stato e dei suoi simili, come per un crimine (il "reato di solidarietà"). E su di lui che si addensa la nube scura del sospetto, della maldicenza, dell'accanimento giudiziario, da parte di quegli stessi apparati che hanno le mani sporche di un'infinità di "vergogne": la vergogna della guerra, la vergogna del commercio delle armi, la vergogna della connivenza con regimi dittatoriali e torturatori. Come nella tragedia shakespeariana è oggi la virtù a dover chiedere scusa al vizio di esser se stessa.

[D: Come è arrivata la società italiana che ha una profonda tradizione di solidarietà a maturare posizioni di disumanità come quelle emerse nei confronti dei migranti?]
Questa caduta morale non è solo prerogativa nostra. E' purtroppo diffusa nell'Europa che dovrebbe fare dei "diritti umani" la propria "norma fondamentale" e che pratica invece con preoccupante accanimento la disumanizzazione del mondo: da tempo i magistrati francesi, subito al di là del confine di Ventimiglia, comminano sentenze di condanna ad anni di carcere a chi aiuta i migranti a varcare quel confine che nell'idea d'Europa non dovrebbe più esistere. E quelli italiani hanno incominciato a imitarli dopo che a Ventimiglia stessa un sindaco sciagurato ha emesso un'ordinanza che sanzionava duramente chi si fosse permesso di offrire cibo ai rifugiati in transito, trasformando in reato il gesto più naturale in qualsiasi etica, religiosa o laica i "dar da mangiare agli affamati". E poi perché l'Italia, geograficamente in prima linea rispetto ai flussi in entrata verso l'Europa - vera e propria "porta" verso un continente ricco e avaro -, è organizzativamente e amministrativamente agli ultimi posti come capacità di accoglienza, con pochi mezzi, strutture inadeguate, direttive caotiche e contraddittorie. Cosicché chi dovrebbe essere "accolto" e accompagnato rimane in realtà abbandonato a se stesso ed "esposto", corpi in strada, "schiuma della terra" che la risacca sociale accumula negli spazi morti, ai margini delle aree urbane. Ed essere "esposti", nella società dura e competitiva in cui viviamo, significa catalizzare l'ostilità e l'aggressività della folla crescente d'insofferenti, disagiati e frustrati, insoddisfatti che lo sfarinamento sociale in corso riproduce su scala allargata.

[D: Stiamo costruendo un capo espiatorio?]
Sì, il migrante è il perfetto "capro espiatorio" in una società in cui i "deprivati" (di reddito, di status, di autostima, di futuro) stanno diventando maggioranza. E in cui l'"ascensore sociale" che per decenni aveva portato il ceto medio delle società occidentali a dilatarsi enormemente sembra essersi bloccato o addirittura aver invertito la propria corsa: non più dal basso verso l'alto ma al contrario, dall'alto verso il basso. Non più ascesa sociale ma declino, declassamento, perdita... A cui si reagisce rifacendosi con chi sta più in basso, non potendo colpire i colpevoli che stanno "in alto". Procurandosi una sorta di risarcimento per i diritti, la posizione sociale, lo status e l'autostima perduti mediante la "costruzione" di un altro più in basso di sé: una figura - la più debole possibile, l'"ultimo tra gli ultimi" sia essa incarnata dal migrante, il "clandestino", lo zingaro o il clochard, in sostanza il "povero" - da schiacciare in basso così da ristabilire una qualche distanza rispetto a sé.

[D: In tutta Europa crescono fenomeni dì razzismo e gruppi di estrema destra trovano un consenso mai visto nei decenni recenti. Perché il razzismo non è più un tabù?]
Nell'Europa di oggi, il razzismo non è più un tabù. Qualcosa, appunto di cui vergognarsi, come quando anche chi lo era si sentiva in dovere di premettere al proprio sfogo: "Io non sono razzista, però...". Oggi si va diffondendo quasi un gusto dell'affermazione razzista. Fa parte del nostro imbarbarimento antropologico a cui una classe politica ignava non reagisce con la necessaria energia, ma al contrario s'adegua, blandisce, maschera e insegue (si pensi alle misure amministrative alla Minniti, o all'oscena vicenda dello ius soli impantanato in Parlamento per viltà) come se dosi omeopatiche di razzismo potessero salvarci dalla sua virulenza distruttiva... Anziché ingaggiare la "vera battaglia" - quella che permetterebbe di mantenere almeno un residuo di dignità - con il "resto d'Europa" che rifiuta la redistribuzione dei rifugiati e blinda i propri confini (da Ventimiglia al Brennero) - si preferisce la blindatura "diplomatica" del proprio confine meridionale, il pactum sceleris con i "capi-tribù" libici del sud eretti a custodi dei cancelli che danno sul deserto, gli uomini delle milizie feroci, gli stupratori e torturatori dei lager e della guardia costiera libica, fino a ieri scafisti! e trasbordatori esosi nei confronti delle misere risorse dei migranti, oggi guardiani al nostro soldo per tenere fuori dallo sguardo la morte di massa. Pagati per far crepare nella sabbia del deserto anziché nelle acque internazionali o sulle nostre spiagge quella parte di umanità. Senza occhi indiscreti, ne testimoni scomodi, come erano appunto le navi delle Ong nel Canale di Sicilia.

[D: Per fermare il flusso dei migranti siamo scesi a patti con i valori che hanno ispirato la nascita dell'Europa?]
Quel flusso è inarrestabile, perché la fuga dalla morte non può essere fermata da nessuna minaccia o tormento: ha la medesima forza irresistibile che possiede la vita, il "bios", nella sua disperata volontà di affermarsi. Ma tutto ciò già è sufficiente a far misurare l'enorme quantità di dignità umana e di valori che ogni giorno va in fumo all'ombra di un'apparente normalità amministrativa. Si tratta, appunto, della "banalità del male" di cui ha parlato, un tempo, Hannah Arendt. E viene in mente la frase che scrisse, ormai più di mezzo secolo fa, George Steiner: "Noi veniamo dopo. Adesso sappiamo che un uomo può leggere Goethe o Rilke la sera, può suonare Bach e Schubert, e quindi, il mattino dopo, recarsi al proprio lavoro ad Auschwitz".

*** Marco REVELLI, 1947, politologo e sociologo, intervistato da Simonetta Gola, Tra umano e disumano, 'Emergency', dicembre 2017.

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