venerdì 22 dicembre 2017

#SENZA_TAGLI / Fotografare la guerra (Giles Duley)

Un fotografo in visita all'ospedale di Emergency si chiede che senso abbia il suo lavoro di fronte alla tragedia delle vittime di Mosul.


Poche storie mi hanno colpito più di quelle dei civili feriti che ho documentato quest'anno a Mosul. Un viaggio che mi ha fatto perdere la speranza e che mi ha fatto mettere in discussione il senso del mio lavoro. Dopo il mio ritorno, per un mese mi sono chiuso in me stesso. Quando ti ritrovi faccia a faccia con una disperazione e una violenza così grandi, che valore può avere una fotografia? Catturare e condividere quei momenti diventa solo un'intrusione? Di fronte a un orrore così grande, la fotocamera sembra essere impotente, e il suo utilizzo quasi perverso.

Credo che la fotografia richieda una grande responsabilità. Nel momento in cui prendo in mano la fotocamera per documentare la storia di una persona, mi chiedo sempre perché lo sto facendo. Soprattutto quando mi ritrovo a documentare la sofferenza di qualcun altro: non c'è nulla di più crudele di puntare l'obiettivo a una persona ferita, impaurita o in serio pericolo. E quindi perché farlo? Fa davvero la differenza? 

Lo scorso febbraio, ho visitato l'ospedale di Emergency a Erbil che ogni giorno riceveva decine di civili feriti durante gli scontri a Mosul. Dopo aver passato più di dieci anni a fotografare gli effetti delle guerre, posso dire di aver visto raramente scene più atroci. Neonati con arti amputati, intere famiglie distrutte, un bambino paralizzato dal proiettile di un cecchino. Sono rimasto senza parole. 
Ho sempre cercato di trovare in queste situazioni un barlume di speranza da fotografare, come una risata o l'amore all'interno di una famiglia. Ma quello che ho visto a Mosul mi ha spiazzato. 
Penso a Raghad, seduto accanto al letto di suo figlio. Per quattro giorni l'ho osservato in silenzio. Quando passavo mi faceva un cenno con la testa, ma nulla di più. Poi un giorno si è  avvicinato e mi ha stretto il braccio. 
"Non è stata colpa mia," mi ha detto con un'espressione vuota che raramente ho visto su altri volti, "ho fatto quello che pensavo fosse giusto." E mi ha raccontato la sua storia, di come la sua famiglia avesse cercato di ripararsi stando dentro casa, sotto un tavolo, mentre le bombe esplodevano intorno a loro. La casa di fronte è stata colpita, e poi quella accanto, e in quel momento Raghad, preso dalla paura, ha detto a tutti di scappare. Non appena sono usciti dalla porta principale, una terza bomba li ha colpiti, uccidendo all'istante la moglie, tre figlie e due figli. Un altro dei suoi figli, Abdulah, ha perso la vista da un occhio.
Non ci sono parole di fronte a un simile racconto. Non puoi dire: "Andrà tutto bene" perché nulla sarà più come prima. Non c'è speranza né ottimismo. Questa è la vera faccia della guerra e dell'orrore. Ho fotografato suo figlio di fronte a un muro bianco, una benda ancora a coprire l'occhio. La pelle segnata dall'impatto della bomba, la sua espressione vuota come quella del padre.
Vedevo solo la disperazione e l'orrore di quanto stava accadendo. Fotografavo ed ero preso dalla rabbia. Andando contro la mia etica professionale, ho deciso di mostrare la violenza e il sangue di cui sono stato testimone. Volevo che il mondo vedesse cosa stava succedendo e che sentisse lo stesso turbamento che ho provato io.

Con il passare dei giorni, sentivo che qualcosa non andava bene. Non si trattava di me, ma delle persone che stavo fotografando: per rendere giustizia alle loro storie dovevo ritrovare un equilibro nel mio modo di affrontare la fotografia. Non mi piace l'espressione "dare voce alle persone", perché una voce l'hanno già: il mio compito è fare in modo che queste voci vengano ascoltate.
La domanda rimane: perché farlo? Che differenza può fare una fotografia? 
Di recente, il fotografo di guerra Don McCullin, da sempre mia fonte di ispirazione, ha affermato che il suo lavoro non ha avuto senso perché il mondo è ancora devastato dai conflitti. E quindi, se la mia fotografia non fa la differenza, perché dovrei puntare la fotocamera a un bambino che è appena stato ferito? 
L'ultimo giorno a Mosul, mi siedo con Dawood Salim, un ragazzo di 12 anni che ha perso entrambe le gambe e gran parte della mano destra. E' da una settimana che vado a trovare lui e la madre, il ragazzo è sempre sorridente e con la battuta pronta. Per la prima volta mi sento pronto a fotografarlo. 
Chiedo a sua madre se le dispiace se fotografo il figlio.
Lei mi guarda, con sguardo coraggioso e al tempo stesso rassegnato: "Quando un bambino è ferito in questo modo, il mondo intero deve vederlo." 
È questa la risposta ai miei dubbi? Ovviamente no, ma mi ricorda qual è il mio compito: usare la fotografia come testimonianza e raccontare le storie delle vittime. Attraverso le sue parole, la madre di Dawood non mi ha dato il permesso: le sue parole mi hanno spronato a fare quanto mi ha chiesto. La fotografia perde di significato se non faccio tutto il possibile affinché il mondo veda quello che i miei occhi hanno visto. Questo è il mio dovere.

*** Giles DULEY, 1971, fotografo di guerra britannico, Fotografare la guerra, 'Emedrgency', dicembre 2017


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