lunedì 9 ottobre 2017

#LIBRI PREZIOSI / “Non è lavoro, è sfruttamento”, di Marta Fana (recensione di M. Ferrario)

Marta FANA, Non è lavoro, è sfruttamento
Laterza, 2017
pagine 110, € 14,00, ebook € 8,99

Un punto di vista 'contro', ma tutto documentato
Marta Fana è una giovane ricercatrice che si divide tra Italia e Francia, dove lavora a Parigi all’Istituto di studi politici di Sciences Po. Il suo impegno anche sul campo, sui temi del lavoro e delle relazioni industriali, è attivo e appassionato. 

Il saggio Non è lavoro, è sfruttamento (Laterza, 2017) non è una sorpresa: i suoi contributi, frequenti negli ultimi tempi, su stampa e in trasmissioni televisive, ci hanno abituato ad analisi e prese di posizioni puntute, documentate, controcorrente, che non fanno sconti al pensiero prevalente. C’è sempre più bisogno di un punto di vista fuori dal coro, che sveli i dati dì realtà occultati dall’ideologia dominante (che peraltro si finge senza ideologia) e il suo libro, appena uscito, conferma il taglio consueto, ma la capacità di scavo profondo e ricco di dati e riflessioni critiche ha qui la possibilità di allargarsi, proprio grazie al respiro di un saggio, e di disegnare un quadro sistemico dello stato del lavoro oggi in Italia duro e inquietante. E i riferimenti storici offerti sono importanti per capire che il dramma del presente non è congiunturale, ma viene da lontano e non è così casuale come spesso colpevolmente o dolosamente si pensa. 

Ne esce un pamphlet combattivo, ma rigoroso, perché l’approccio polemico, certo mai nascosto, poggia su rilevazioni empiriche e sulla connessione intelligente di dati e fatti cuciti con il filo di un metodo che aspira alla ricostruzione oggettiva. Da anni l’attacco al capitalismo è considerata prassi antiquata, da relegare al Novecento e agli epigoni irriducibili di un marxismo fuori dalla storia: il neoliberismo ha fatto breccia ovunque e, non solo in Italia, la sinistra, nelle sue versioni ostinatamente e fondamentalisticamente di governo, ha imitato le destre.

Marta Fana recupera un’ottica che sembrava gettata nella spazzatura degli strumenti per leggere e cambiare là realtà: si può non concordare con le sue posizioni, sicuramente dure e drastiche,  ma è difficile, se si mantiene onestà intellettuale, rifiutare di meditare sull’affresco impietoso che sa fotografare, anche con uno stile chiaro e colloquiale, senza chiusure narcisistiche nel gergo sociologico. Per questo, perché il suo libro è oggi quanto mai necessario per comprendere la questione lavoro e, più ampiamente, la questione sociale, va ringraziata.

*** Massimo Ferrario, per Mixtura

da: Marta FANA, Non è lavoro, è sfruttamento, Laterza, 2017
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Ed eccola, l’innovazione: l’emergere di spazi di ‘coworking’, dove apparentemente si lavora insieme, ma, molto più realisticamente, ognuno se ne sta per i fatti suoi. Mettere a disposizione uno spazio di coworking viene spesso raccontato come l’offrire un servizio che dà l’opportunità di incontrarsi, fare rete, scambiarsi idee e, perché no, crearne di altre tra una pausa e l’altra. A pagamento. Per sentirsi meno soli si spende intorno ai 15 euro al giorno, si affitta una postazione con una presa e se va bene si scambia qualche parola con quel collega fittizio e potenziale. Solitudine e frammentazione create dai processi di precarizzazione produttiva rimangono questioni private a cui il mercato risponde, trova soluzioni a carico dei lavoratori e su cui è sempre pronto a trarre un po’ di utili. Un cortocircuito che rende bene l’idea di come il concetto di condivisione venga messo a valore. In questo caso, infatti, la solitudine e la frantumazione del lavoro diventano ‘nuovi mercati’; la condivisione non ha un connotato sociale bensì di mercato: si paga per condividere qualcosa che non si detiene, a parte la frustrazione della solitudine. Mentre le aziende risparmiano sui costi relativi ai luoghi fisici del lavoro, i lavoratori pagano per dotarsi di uno spazio di lavoro in cui immaginarsi una vita non atomizzata. Si potrebbe ovviamente sostenere che è possibile riconquistare spazi pubblici dismessi, che il settore pubblico potrebbe impegnarsi a adibire a postazioni di lavoro. La riappropriazione degli spazi pubblici da parte della collettività è un obiettivo nobile che va costantemente rivendicato: tuttavia non si capisce perché, ancora una volta, sia il pubblico a dover pagare per il privato e la sua deresponsabilizzazione! (...)
Ogni giorno, in Italia, più di tre persone muoiono sui luoghi di lavoro, a cui vanno aggiunti gli infortuni e tutte le malattie che si manifestano lentamente, quando ormai il lavoratore è andato in pensione. Secondo i dati ufficiali, nel 2016 le denunce per infortunio sul lavoro sono oltre seicentomila. Neanche fossimo in guerra!
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Nel 2012 essere «bamboccioni», termine coniato dal fu ministro dell’Economia Tommaso Padoa Schioppa, era ormai un complimento: stavano per arrivare gli «sfigati» e gli «schizzinosi». «Dobbiamo dire ai nostri giovani che se a 28 anni non sei ancora laureato sei uno sfigato, se decidi di fare un istituto tecnico professionale sei bravo. Essere secchione è bello, almeno hai fatto qualcosa»: parola di Michel Martone, viceministro del Lavoro del governo Monti (gennaio 2012). Rincara la dose la ministra Elsa Fornero (ottobre 2012): «Non bisogna mai essere troppo choosy [schizzinosi], meglio prendere la prima offerta e poi vedere da dentro. Non aspettare il posto ideale. Bisogna entrare subito nel mercato del lavoro». 
Così come ha fatto Chiara, che per due anni ha lavorato come cassiera a chiamata all’ipermercato Martinelli di Mantova. Alla cassa tutti i week-end da venerdì a domenica e poi anche un turno durante la settimana. Per gli infrasettimanali la chiamavano il giorno prima per darle conferma. No ferie, no malattia. Il turno era di dodici ore, con un’ora e mezza di pausa pranzo. La pausa pranzo era il solo momento in cui Chiara aveva diritto a bere. In cassa era vietato bere, ma anche sedersi. Così lei e le sue colleghe erano costrette a tenere nascoste le bottigliette e a scomparire sotto la cassa per qualche istante. Essere sorridenti sempre, anche quando ti arrivava un’infezione urinaria, perché pure se bevi poco al bagno devi andare, ma quando chiami il cambio la collega non arriva a tamburo battente. Aspetti, anche mezz’ora, quaranta minuti. A fine turno, nonostante nel contratto ci fosse scritto «cassiera», Chiara e le sue colleghe dovevano pulire i bagni, tutti. 
Chiara è riuscita a trovare lavoro subito e a farsi sfruttare come si deve; le dichiarazioni della Fornero però rimangono non soltanto offensive ma anche fuorvianti. Per la legge della domanda e dell’offerta, se tre milioni di persone sono disoccupate e altrettante scoraggiate – cioè non lavorano e si sono stancate di cercare – significa che la prima offerta spesso neppure esiste. Lo dimostra il numero di posti vacanti, cioè disponibili rispetto al totale dei posti di lavoro esistenti (somma tra i posti vacanti e quelli occupati). Un indicatore che misura la domanda di lavoro da parte delle imprese, a ben vedere fanalino di coda europeo tra il 2009 e il 2016.
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