sabato 24 dicembre 2016

#FAVOLE & RACCONTI / Il discepolo Li Min e i 'buoni comportamenti' (M. Ferrario)

«Sono pronto», disse Li Min.
Wu Zhi guardò l'allievo con aria interrogativa.
«Pronto a cosa?».
Li Min era eccitato.
«Maestro, domani, come sai, è festa grande al villaggio e verranno da ogni parte. Ci saranno cibo e spettacolo per tutti. In una piccola piazza, poco distante dalle bancarelle dei dolciumi che invaderanno le stradine, mimi e ballerini si alterneranno per far divertire la gente. Al termine, sul piccolo palco che verrà predisposto, potrò salire io. Sarà il momento giusto. Mi ascolteranno. So cosa dire e come dirlo. Ora, maestro, mi manca solo la tua approvazione. Ti chiedo rispettosamente di consentire che io mi metta alla prova».

Wu Zhi non capiva.
«La prova...? Quale prova...?»
«Terrò un discorso. Sarà il compendio di tutto ciò che ho imparato standoti vicino in questi due anni. Ti prego di essere presente: vedrai, sarai orgoglioso di me.» 

La perplessità di Wu Zhi aumentava: l'entusiamo dell'allievo era evidente, ma continuava a non essergli chiaro che cosa avesse in testa.
«Terrai un discorso, Li Min? Ma su cosa?»
«Insegnerò il buon comportamento: come camminare sulla retta via. In pace con se stessi e con il mondo. Tu mi hai insegnato molto in tutto questo tempo di vicinanza e ora ho il dovere di restituire agli altri il sapere che credo di avere appreso».

Il maestro scosse il capo e Li Min ebbe un sussulto.
Preoccupato, domandò:
«Credi che non sia in grado di farlo? Mi ritieni ancora l'allievo del giorno in cui ti incontrai?».
Wu Zhi sorrise.
«No, Li Min, so che il tempo matura e tu sei maturato. Le conversazioni che abbiamo intrattenuto hanno stimolato, anche in me e non solo in te, riflessioni importanti: sul nostro essere nel mondo e sul mondo stesso. Ambedue abbiamo imparato. Ma...»
Era attento a trovare le parole giuste.
«Stai dicendo che domani 'insegnerai'?».
Il giovane non tratteneva la sua eccitazione.
«Mi sono preparato. Da giorni sto ragionando su quello che dirò. Ora ce l'ho chiaro: sarò in grado di tenere una lezione breve, ma efficace. Che spingerà chi ascolta ad adottare nuovi comportamenti. Migliori. Non mi credi capace?».
Wu Zhi lo rassicurò.
«Mai ti ho fatto mancare il mio pensiero sulle tue doti: sei un giovane in gamba e più volte te l'ho riconosciuto. Non è questo il punto, Li Min.»
Il giovane si allarmò.
«E allora, maestro, qual è il problema?»

Wu Zhi invitò l'allievo a sedere con lui su una delle panche che circondavano il giardino del minuscolo monastero.
«Ecco, Li Min: ti esprimo i miei dubbi, poi sei libero di valutare e di decidere. Tu sai, perché più volte me l'hai sentito ripetere, che il vero insegnante non è chi passa contenuti, come acqua versata in un vaso. Ma chi accende il fuoco. Chi lascia, o prova a lasciare, il 'segno-dentro', come dice appunto l'etimologia del verbo 'in-segnare'. L'opera dell'insegnante, perché si compia, ha bisogno che chi deve apprendere sia con lui, in un rapporto ravvicinato, continuo, caldo. Chiede che costui si faccia protagonista, si 'alzi' e appunto 'vada a prendere' (ad-prehendere) quanto gli è offerto: rielabori i semi ricevuti, coltivi quelli che più gli si adattano e faccia crescere la pianticella, prestandogli cura costante. Apprendere è moto a luogo. Ed è un processo. Attivo, partecipato, mai passivo. Non è un passaggio, ma un divenire. Richiede tempo, non è un evento. E' uno svolgersi, tanto più facile - ma sempre difficile e senz'altro complesso - quanto più chi intende stimolare l'apprendimento ha dato spazio a chi deve apprendere, al suo essere 'soggetto', sin dall'inizio. A partire dai suoi bisogni e dai suoi desideri. Da non dare mai per scontati, ma da indagare, decifrare, 'incrociare' con i contenuti proposti: che devono essere sempre scavati, problematizzati, rivisitati. Se ti ho trasmesso qualcosa, in questi anni, è ciò che 'tu' hai rielaborato e fatto 'tuo' in funzione dei 'tuoi' bisogni. Forse, qualche volta, ho avuto la fortuna, e tu me l'hai concessa, di accendere la tua attenzione con uno zolfanello. Avendo 'sentito', e colto, i tuoi problemi, i tuoi interessi, le tue attese. E così producendo l'avvio di quella meditazione che in te, e solo in te, col tempo, ha favorito l'apprendimento. Ma nessuno davvero insegna ad un altro. Men che meno dall'alto di un palco. In mezz'ora. O anche in tre ore. Perché da un palco si parla necessariamente a tutti, e non a ciascuno. E nessun dialogo è possibile. Fammi concludere con una frase che può sembrare una battuta ad effetto, Li Min. Credimi: solo chi apprende è insegnante. Di se stesso».

Li Min tacque.
«Dunque, maestro, ciò che vorrei fare non serve a nulla?»

Wu Zhi si accorse di aver frustrato l'allievo.
«Non dico questo. Volevo solo contenere il tuo entusiasmo: non spegnerlo, ma orientarlo. Se lascerai trasparire la passione per quello che dirai, facendo capire che vivi ciò che dici e non stai solo ripetendo quello che hai in testa, forse riuscirai a produrre, in qualcuno, e sempre che il cielo ti sia favorevole, qualche emozione. E le emozioni sono fondamentali: muovono l'apprendimento più delle parole. Anche se, proprio per questo, vanno maneggiate con cura. E soprattutto con rispetto. Per non diventare come quegli oratori - sempre troppi - che non hanno nell'anima ciò che dicono, ma parlano solo per convincere strumentalmente gli altri ai loro obiettivi: mescolano fuffa e retorica, vendendo sogni e illusioni che sono soltanto aria fritta. Quello che ottengono è un calore artificiale, che dura poco più dello spazio del loro discorso. Poi tutto si raffredda e cade nel dimenticatoio. Con la sgradevole sensazione, da parte di chi ha ascoltato e magari anche applaudito per averci forse anche solo un po' creduto, di essere stato manipolato e ingannato».

L'allievo fece un lungo silenzio: rievocò alcuni ricordi e dovette riconoscere di essere stato spesso incantato da chi aveva solo parole con cui spostare aria.

Il maestro attendeva.
Conosceva il carattere caparbio di Lin Min: non avrebbe rinunciato a ciò che aveva in mente, probabilmente da mesi, da quando aveva saputo che si sarebbe celebrata la festa del villaggio.
Il suo desiderio di mostrarsi allievo diligente, che aveva saputo mettere a frutto quanto imparato dalla lunga convivenza con Wu Zhi, avrebbe avuto il sopravvento su qualunque remora.

E fu così.
Li Min terminò il lungo silenzio di riflessione annunciando la sua decisione.
«Ti ho ascoltato, maestro. Ma vorrei provare. I tuoi suggerimenti, come sempre, mi sono preziosi: se tu mi autorizzi a cimentarmi con questa sfida, cercherò di non dimenticarli. Ti chiedo solo di essere presente ad ascoltarmi. E spero di non deluderti.»

Wu Zhi non si stupì della decisione.
Si limitò però a correggere l'allievo: non era in discussione la delusione sua, ma, se mai, quella di Li Min stesso.
E comunque, gli disse, la delusione, in questo caso, se ci fosse stata, avrebbe dovuto considerarla benvenuta: se la si sa accogliere, è un meccanismo potente per favorire l'apprendimento.

* * *
Venne il giorno.

E Li Min, dal palco della piazza, tenne un discorso di una mezz'ora.
Lo ascoltavano in tanti: tutti in piedi, silenziosi, colpiti dai contenuti e dal tono.
Le parole di Li Min uscivano senza fronzoli: secche e chiare. Ma soprattutto appassionate e ispirate. Convincenti, anche perché ricche di esempi, comprensibili pure dai tanti analfabeti che gremivano la piazza.
Il giovane terminò il suo dire lasciando nell'aria un'atmosfera positiva, carica di buoni pensieri.

Fu in quel momento che dalla piazza un vecchio claudicante, con i vestiti strappati e sporchi, facendosi largo tra la gente che ancora aveva lo sguardo fisso su Li Min, si avvicinò al palco: salì i due gradini a fatica per la gamba menomata e si trovò di fronte al giovane.
Le persone erano incuriosite.
Si chiedevano cosa volesse l'uomo: un forestiero che non si era perso un frammento di quanto detto.
Era un mendicante?
Chiedeva soldi?
Oppure voleva scambiare una parola con Li Min e porre una domanda su uno dei tanti temi toccati?

Li Min, in un attimo, vedendo il vecchio con gli abiti lacerati di fonte a lui, si tolse il suo mantello e glielo pose in mano.
Poi, a voce alta perché tutti potessero sentire, rimarcò l'atto, commentando:
«Tieni, vecchio: tu hai più bisogno di me di questo abito. Ti auguro buona vita. E... buoni comportamenti.».

L'uomo, come stupito dal gesto, rimase fermo, a rimirarsi tra le mani il mantello che gli era stato offerto senza che lui avesse chiesto nulla: continuava a guardarlo, senza indossarlo.
Poi cercò di dire qualcosa, ma Li Min, con un balzo, era già sceso dal palco e cercava Wu Zhi tra la folla.
L'aveva intravisto mentre parlava: aveva notato che aveva seguito il discorso in disparte, all'ombra di un albero all'angolo della piazza.

Il giovane era impaziente:
«Allora, maestro? Che dici: come è andata la prova?».

Wu Zhi mostrava un volto gioviale e benevolo.
Ribaltò la domanda, ma fu attento a trasmettere disponibilità e comprensione:
«Te lo dirò, Li Min. Ma tu, intanto, dammi la tua impressione: sei contento?».
«Sì, maestro. Direi di sì. Mi pare fossero tutti interessati. Avrebbero potuto andarsene tra le bancarelle, a proseguire la festa. Invece la gente è rimasta. E mi ha ascoltato in silenzio».

Il giovane lasciò trascorrere qualche secondo, ma per lui furono minuti: perché Wu Zhi non si esprimeva?
Non si trattenne e lo incalzò.
«Allora, maestro?»

Wu Zhi era noto per essere sincero: e anche l'allievo, nonostante più volte avesse dovuto misurarsi con la spiacevolezza di questo suo tratto, apprezzava questa qualità, perché gli consentiva di migliorarsi.
«Pure io ho visto gente attenta. Hai detto cose giuste e buone. E le hai esposte con passione e  convinzione. Senza quella retorica da cui ti avevo messo in guardia e che almeno io non sopporto.»
Sorridendo, aggiunse:
«Forse sei riuscito ad accendere qualche zolfanello... Almeno in qualche animo più sensibile. Ora il fuoco non dipende più da te, ma tu potresti aver dato l'avvio...».

L'allievo incassò le lodi.
Ma aveva intuito che per Wu Zhi c'era qualche ombra: era ansioso di conoscerne il numero e l'intensità.
Riusciva comunque a trattenersi e ad attendere.

Il maestro riprese, senza perdersi in giri di parole.
«Tuttavia, Li Min, non posso tacere: tradirei me stesso se rinunciassi a dirti fino in fondo ciò che penso e verrei meno all'impegno di trasparenza che ho con te».
«Certo maestro, ti ascolto. Le tue parole sono sempre come aria fresca di montagna per me».
«Non ho apprezzato due cose. Proprio alla fine».
Li Min lo interruppe:
«Sono stato troppo zuccheroso...? Ho chiuso sbrigativamente, senza sottolineare le cose più importanti della lezione? »
«Non direi. No. Non sono le parole che non mi hanno convinto. E' stato il tuo gesto. Con l'uomo che era salito sul palco...»

L'allievo aggrottò le sopracciglia: gli aveva dato il mantello. Cosa aveva fatto di male?
Si precipitò a spiegare:
«Ma era un mendicante. Gli ho dato il mio vestito. Non è stato un buon comportamento?»

Wu Zhi sorrise.
«Vedi, ci stai ricascando. Anche adesso. Dici: ma era un mendicante. Forse lo era. Ma forse non lo era. Forse, mendicante o no, in quel momento non voleva il tuo mantello. Forse voleva soltanto parlarti: magari chiederti qualcosa di quanto tu avevi detto nel discorso. Ma tu non l'hai ascoltato, neppure gli hai lasciato spiegare perché ti si era avvicinato. Gli hai gettato addosso il tuo pregiudizio, la tua convinzione frettolosa basata sulle apparenze. Hai deciso per lui quale era il suo bisogno. Hai pensato che la sua esigenza fosse quella di avere un vestito. E così, tra l'altro, dandogli il tuo mantello con un gesto di carità non richiesta, hai colpito la sua dignità».

Li Min aveva chinato la testa: il maestro era stato crudo e netto, ma doveva ammettere che aveva ragione.

Wu Zhi controllava la reazione dell'allievo: 'sentiva' dentro sé la sua delusione, provava empatia e compassione e questo sentimento gli faceva male, perché ormai considerava Li Min quasi un figlio.
Avrebbe voluto dirgli che tutto era andato magnificamente. Ma per rispetto, a lui e a se stesso, non poteva fingere.
Aggiunse il secondo punto.

«Ecco, Li Min: devo dirti anche la seconda cosa che non mi è piaciuta. E forse questa è ancora più grave della prima: ma prendi la mia durezza come segno di affetto nei tuoi confronti. Tu hai compiuto questo gesto, di carità non richiesta, in pubblico: per di più commentandolo a voce alta, come per farti bello di fronte a tutti del tuo buon comportamento. Con il tuo agire hai manifestato incoerenza con le parole, nobili ed eccelse, che avevi appena finito di esporre. Sei caduto in una trappola frequente. Capita spesso: da una parte i proclami virtuosi, dall'altra le azioni, misere, che li contraddicono. Tu avevi scelto un tema impegnativo: i buoni comportamenti. Con il tuo discorso hai proposto, anche con passione, un 'modello' alto, ispirato, esigente. Forse troppo. Alla prova dei fatti, non l'hai retto. Certo. La coerenza assoluta non è di questo mondo e nessuno può chiedere a sé o agli altri la coerenza totale: anche per questo siamo umani. Ma quanto più alziamo l'asticella dei nostri ideali, per di più impancandoci in cattedra per insegnare agli altri cosa è giusto e cosa è sbagliato, tanto più siamo chiamati a minimizzare le nostre incoerenze. Minimizzare, ripeto: non azzerare. Eppure, anche per minimizzare, dobbiamo produrre costantemente uno sforzo immane, come il corridore che suda per raggiungere il traguardo in vetta a una montagna. Con una differenza. Noi, diversamente da lui, il traguardo non lo raggiungeremo mai: perché mai riusciremo del tutto a praticare le parole che diciamo. E tuttavia, accettato questo nostro limite 'naturale', l'impossibilità 'umana' di essere totalmente coerenti sul duplice fronte del 'dire-e-fare' non deve farci desistere dal tentativo di praticare il massimo di coerenza possibile. Mantenendoci costantemente vigili sul delta 'parole-fatti': perché la fisiologia non si muti in patologia, producendo quella frequente 'schizofrenia' che svuota le parole. Con la conseguenza, tra l'altro, che perdiamo credibilità: ciò che diciamo, non incidendo più sulla realtà, diventa fuffa e noi veniamo etichettati, giustamente, come parolai che si riempiono la bocca di aria, gettandola per giunta addosso agli altri.»

Li Min aveva acoltato: testa e cuore erano impegnati a rimuginare quanto il maestro aveva appena detto.
E dal cuore appunto gli uscì una domanda sincera.
«Ma allora, maestro, non possono esistere, nel mondo della realtà, buoni comportamenti

Wu Zhi non rispose subito: anche lui aveva dubbi.
«Non lo so, figliolo. Qualche volta, qualche traccia, se guardiamo bene, di 'veri-genuini-completi' buoni comportamenti la possiamo trovare. Altre volte, ed è già molto, possiamo vedere tentativi sinceri (tensioni, sforzi, impegni) che mirano a realizzare buone pratiche. Altre volte ancora, però, se sappiamo osservare e non ci lasciamo ingannare da certi luccichii esteriori, scopriamo che si tratta di apparenze, finzioni, mistificazioni. E comunque, anche quando registriamo tracce genuine, quasi sempre, se usiamo spirito critico, possiamo rilevare che i comportamenti 'veri', quelli messi in campo e non annunciati, non sono così brillanti come li immaginiamo nel mondo degli ideali. Sono un po' più grigi. Magari sono anche colorati, ma di un colore meno brillante e vivido di quanto ci attenderemmo. Insomma, sono comportamenti 'mescolati'. 'Terreni'. Come è peraltro logico, visto che noi siamo umani e gli dei, se esistono, non sono tra noi e abitano i cieli...».

Maestro e allievo restarono in silenzio per qualche secondo.
Era chiaro a entrambi che la riflessione non era terminata.

«Forse...» lasciò in sospeso Wu Zhi.
Li Min, di solito impaziente, riuscì a frenarsi.
Attendeva.

Finché Wu Zhi parve aver trovato l'immagine che meglio traduceva e completava il suo pensiero.
«Ecco, Li Min. Dicevo prima del sudore del corridore. Credo sia una metafora efficace per tutti noi, anche se non stiamo facendo nessuna gara di corsa in montagna. Perché, in questo caso, tutti noi siamo (se vogliamo esserlo) come il corridore di cui dicevo. Quel sudore, dato dallo sforzo di tentare una coerenza umanamente impossibile, ma necessaria, se vogliamo essere uomini fino in fondo, può costituire un indizio: un segnale che almeno in quel momento, probabilmente, si sta realizzando un buon comportamento. Sì, la coerenza come tensione continua, sudata, alla coerenza. Basterebbe... Basterebbe sia per essere coerenza (quella praticabile e non quella sognata), che per essere, in qualche modo già di per sé, un buon comportamento».

Li Min non si accorse, ma a voce bassa stava ripetendo a se stesso, come per imprimersi il concetto bene in mente:
«Insomma, non smettere mai di provare a essere coerenti con i modelli ideali che proponiamo a noi e agli altri è già un buon comportamento... Anzi: forse proprio questo è uno dei pochi veri buoni comportamenti...».

*** Massimo Ferrario, Il discepolo Li Min e i 'buoni comportamenti', 2016, per Mixtura. Libera rielaborazione originale a partire da un testo di Anthony de Mello, Esibizione, in Un minuto di saggezza, 1985, Edizioni Paoline, 1997.


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